mercoledì 9 aprile 2014

Placido Rizzotto - Luciano Liggio - Michele Navarra

Placida terra

Placido Rizzotto
Uscì quella mattina che sentiva ancora il sapore di caffè nella bocca e si leccava le labbra ancora calde della tazzina. E si aggiustò i baffi prima di tirare la sigaretta mattutina. Di lavoro ancora ce n’era e non poteva fermarsi. Certo due orette ancora poteva dormire ma c’era abituato lui a dormire poco. Tutte le aveva passate e la cicatrice sul braccio glielo ricordava ancora. Liberare le terre da quei crucchi bastardi non era stata una passeggiata. E non si fermava perché da liberare c’era ancora la sua di terra. Quella che calpestava sotto coi suoi piedi, che gliela avevano rubata a lui e alla sua gente. I Borboni furono, lui lo sapeva. E quella femmina nera, la draga, valeva più di tutti gli eserciti crucchi che poteva immaginare.


Una mano che gli stringeva la gola era quello che sentiva ogni santissimo giorno della sua vita. La terra doveva essere coltivata, strappata di mano a quella femmina nera, nata perché lo Stato laggiù non c’era ancora stato e se c’era stato era per starsene con quella femmina nera, la draga. Neanche i colpi di mitra erano serviti per farlo calmare, con quei morti innocenti in quella vallata la prima mattina di maggio. Camminava ancora a testa alta attraversando la piazza e sputando ai piedi di quelli seduti alla villa. Quella villa, rideva solo quando ci pensava, sulle inferriate lo aveva appeso e lui di tutta risposta si presentò alla manifestazione e a colpi di mitra ne fece fuori un poco. Non propriamente lui che le mani non se le macchiava, aveva i suoi scagnozzi lui. Così imparava la lezione. Ma lui duro era, i crucchi li aveva cacciati e quella femmina nera, la draga,  pure se ne doveva andare. Se le terre erano abbandonate e nessuno le va a coltivare dovevano andare ai contadini. Con le zappe, mica coi fucili. Fame di pane c’era e non di potere. E sognava con la sua donna di vivere in una terra libera e di crescere tanti bambini in mezzo alle campagne che amavano. Tutti glielo dicevano di lasciare stare che tanto le cose non cambiano. Se li avesse ascoltati forse quei figli li avrebbe visti. Ma la femmina nera, la draga,  se lo mangiò una notte di primavera spuntando tre colpi nel buio tra le rocce.
Il padre svegliò tutti quella notte e per sette giorni e sette notti correva per il paesino e gridava in faccia a tutti il nome della draga, ma nessuno sentiva, chiudevano le gelosie e tornavano alle loro case che tanto le cose non cambiano. Pure un bambino era scomparso perché diceva che l’aveva vista la femmina nera, la draga, mangiare quell’uomo. Che poi va a finire che la draga si mangia il drago, femmine voraci che succhiano sangue e fottono i loro figli. Passarono gli anni e chi doveva parlare parlò, con la forza, dentro alle mura della Vicaria Nova. Qualcuno diceva che sapeva dov'è che riposa adesso. Il bastardo della femmina nera nel frattempo pure la sua donna s’era presa, vigliacco fino alla fine fu. Lo Stato ci andò e se lo portò, ma quando era vecchio e non ci potevano fare niente. Nel frattempo tanto ancora altri ne arrivarono di figli della femmina nera e tutt'ora vanno girando anche se lo Stato dice che c’è stato in quella terra e che fa tante cose per combattere la draga, anche se ogni tanto gli piace allo Stato starci con la draga. Se questa fosse stata una favola di quelle belle arrivava un principe su un cavallo bianco a sconfiggere la draga e a liberare la terra. E di principi un poco ne vennero e la draga se li mangiò uno ad uno manco se fossero ciliegie che una tira l’altra. Ma questa non è una favola bella e un principe azzurro che uccide la draga non c’è mai stato. Ora però gli uomini che se lo ricordano sanno dove piangere Placido Rizzotto.

(Vito Bartucca)


Placido Rizzotto e Luciano Liggio

Luciano Liggio
Passeggiava per le strade di Corleone, forse un po’ agitato, Pasquale  Criscione la sera del 10 marzo del ’48. Aspettava l’attimo per dare il suo “bacio” al vicino di casa  Placido Rizzotto per consegnarlo nelle mani di Luciano Liggio e Vincenzo Collura. Quella sera Placido aveva in sè la grinta che i compagni della camera del lavoro avevano contribuito a far crescere deliberando l’occupazione del feudo Strasatto.
 Quelle terre spettano ai contadini, lo dice la legge (i decreti Gullo), la stessa legge che agrari e mafiosi si ostinano a non voler rispettare.
Quando Placido esce dalla camera del lavoro Pasquale capisce che il tempo è compiuto, lo avvicina e— con dei discorsi forse amichevoli— lo intrattiene mentre si incamminano verso gli altri carnefici, così come stabilito dal dottore Michele Navarra— capo della famiglia di Corleone. Lo rapiscono e, portatolo in un luogo in aperta campagna, lo torturano. Lucianeddu usa tutta la sua crudeltà contro Placido: deve rispettare gli ordini di Navarra e al contempo vuole vendetta per quando Placido lo appese ad un gancio di macellaio per difendere alcuni partigiani capitati sotto le sue grinfie. Lo tortura, lo uccide e addirittura squarta il suo corpo. Dopo, a dosso di mulo, porta il corpo di Placido sulle montagne di Rocca Busambra per gettarlo in una foiba profonda 70 metri. Il suo corpo resta li per 64 anni tra le montagne che dominano Ficuzza, decisamente diverse dai monti della Carnia dove lottò da partigiano. 
Nel 1949 Carlo Alberto Dalla Chiesa riesce a far confessare Criscione e Collura. Grazie alle loro parole riescono a trovare la foiba dove venne gettato il corpo di Placido, ma i due ritrattarono poco dopo e vennero assolti per insufficienza di prove. Grazie all’impegno di un poliziotto corleonese Nino Melita e del suo collega Vincenzo Callipari venne ritrovata la ciacca, permettendo alla città di poter dare degna sepoltura al leader dei viddani di Corleone.

(Cosimo Lo Sciuto)

Il piccolo Giuseppe

Michele Navarra
Si chiamava Giuseppe Letizia  ed era un pastore di Corleone. Aveva solo 13 anni Giuseppe in quella Sicilia che non ti permetteva di studiare e giocare se eri nato tra la povera gente. Niente svago per Giuseppe e nemmeno un letto caldo sul quale dormire in quella maledetta sera del 10 marzo 1948. Stava vigilando il suo gregge quando vide i fari  e senti il rombo di un’automobile che ruppe il silenzio della campagna. Da quella macchina  scesero Luciano Liggio, Vincenzo Collura e Pasquale Criscione assieme al povero Placido Rizzotto. Si sarà nascosto il povero Giuseppe mentre in preda alla paura guardava quelle bestie che torturavano Placido. Ha visto tutto e non ha retto. Il padre lo trovò in preda ad una febbre altissima mentre delirando raccontava ciò che aveva visto. Lo condusse all’ospedale Dei Bianchi di Corleone, un errore non prevedibile, non poteva sapere cosa sarebbe successo. A dirigere quell’ospedale è proprio il dottore Michele Navarra, il capomafia, lo stesso che ordinò la morte di Placido. È stato semplice ucciderlo, è bastata una sola puntura. Aveva solo 13 anni il piccolo Giuseppe ed era nato dalla parte di chi è costretto a fare sacrifici, era nato viddanu!

(Cosimo Lo Sciuto)


Ancora su Giuseppe Letizia

Forse era solo un brutto sogno, mentre le sue pecore brucavano l’erba si era appisolato e credeva di aver visto  sbucare delle bestie inferocite che avevano fatto fuori un uomo, solo, indifeso. Ma quel liquido caldo, scendendo nelle vene, lo stava risvegliando, ecco …….. non aveva notato i meravigliosi pascoli, le sue pecore che, di bestie non avevano nulla, brucare l’erba rigogliosa, in quel luogo pieno di luce e pace . Così, il dottor Navarra, direttore dell’ospedale di Corleone, la sera del 10 Marzo del 1948, decise per Giuseppe Letizia, pastore tredicenne, condotto nella sua struttura, in preda ad una febbre altissima che gli “faceva sparare minchiate a tempesta”. Il dottor Navarra, medico e re della mafia corleonese, mandò quell’innocente sfortunato al pascolo eterno, disponendo una puntura per curarlo. Un giorno, per Michele Navarro, “la sua famiglia” amata e riverita avrebbe disposto una fine meno silenziosa, una fine degna di un Re: una pioggia di proiettili che non gli avrebbe dato scampo. 

(M.R.)

5 commenti:

  1. I tre post di oggi sono grandiosi, ognuno a modo suo.
    La rielaborazione emozionale di Vito, la precisione narrativa di Cosimo.
    Leggere di mafia in questi termini rinnova la tematica; dopo tanto giornalismo che ha raffreddato l'importanza del problema, una scrittura di questo tipo può riproporre l'urgenza di rielaborare tante ferite subite
    gd

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  2. Il pezzo di Vito lo avevo già letto," la draga" ha il suo effetto. Anche gli altri due pezzi non sono asciutti e privi di narrazione - "Aspettava l'attimo per dare il suo bacio"...ma non per questo meno diretti e di impatto efficace. Gli scrittori partecipano con i loro stati d'animo e chi legge se ne accorge. L'ultimo brano è molto toccante perché si tratta solo di un ragazzino innocente nato "in terra sbagliata". Complimenti a tutti.
    Nina

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  3. Mi piace la storia del piccolo Giuseppe. Mi sento coinvolta in prima linea. Perchè sono un medico e un medico pediatra, che ai bambini vuoi dargli la vita e non la morte. Il piccolo Giuseppe se fosse stato portato lontano dove il padre poteva portarlo, non so a Messina, a Catania. Bastava prendere un'autostrada. Ma un'autostrada non c'era, un'autostrada non c'è mentre tuo figlio rantola e ha bisogno di chi lo guarisce. E ha bisogno di cure...Quel padre lo portò a chi lo può curare. Quel padre lo piange ora questo figlio, ma ancor di più pianga una famiglia che nel suo cuore ha nutrito un medico assassino

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  4. Sono tre pezzi fortissimi.
    La mafia è davvero la cancrena della nostra società: lo capisco ogni volta di più leggendo i post di questa lattina.
    Sto imparando a guardare con occhi diversi il "nostro" vecchio mondo.
    Grazie e bravi.
    L.I:

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